martedì 25 settembre 2007

Il sole va a dormire


La salita alla vetta della duna si rivelava più facile del previsto, aiutata da quasi duecento gradini, che se da un lato ne sciupavano un pochino quell’aspetto da duna del Sahara venuta a cercar fortuna in Europa, dall’altro aiutavano quelli come me, che da quando mi è venuta l’asma sbuffo e soffio come un mantice solo a fare due piani di scale. Mia figlia se li faceva di corsa, allegra e impaziente come solo a quell’età si può essere, voltandosi ogni tanto per vedere se stavo salendo, con l’occhio indagatore di quella che non ci crede che ti sia fermata per fare una foto ma bensì per riprendere fiato. A onor del vero, diciamo pure che mi fermavo per entrambe le ragioni. Il luogo magico che mi circondava mi aveva fatto venire sia un po’ di affanno sia quel fremito inconfondibile dell’indice destro quando non riesce a trattenersi dal premere continuamente sull’otturatore. Ogni metro che salivo, la prospettiva cambiava e sembrava ancora più bella, dovevo fotografarla, perbacco. Mio marito procedeva in testa alla cordata, con lo stesso passo svelto e sicuro di quando si arrampica sulle rocce dolomitiche, lanciando sguardi ammirati tutt’intorno, attento a non far trapelare troppo entusiasmo, che non sarebbe stato certo da lui, eterno brontolone. Man mano che salivamo il vento salmastro soffiava più forte, scompigliandomi i capelli e ingarbugliandomi i pensieri già piuttosto confusi: non sapevo bene cosa aspettarmi e cosa avrei visto una volta lassù. L’impazienza era una presenza tangibile, aleggiava nell’aria, non solo nelle gambe di mia figlia che saltellavano sui gradini come quelle di uno stambecco. L’avvertivo anche io, distinta e sottile insinuarsi sotto la mia pelle, increspandomi le labbra in un lieve sorriso all’idea di quello che avremmo condiviso di lì a breve. Come quando si trovano i pacchetti sotto l’albero il mattino di Natale e si muore dalla voglia di scartarli per vedere cosa c’è dentro. Sono sicura che anche tutte le altre persone che stavano salendo con noi stessero avvertendo le medesime sensazioni. C’era un sentimento nuovo che ci accomunava tutti, in barba alle differenze di lingua e di età, il senso di profondo rispetto per quello spettacolo che la duna e l’oceano ci avrebbero offerto, immutato da milioni di anni ma non per questo meno emozionante: avremmo accompagnato il sole a dormire. Dopo l’ultimo scalino, il mio sguardo si perse e si innamorò all’istante di ciò che ci circondava: il crinale si allungava accanto a noi, una montagna di sabbia dorata lunga quasi tre chilometri, sospesa tra il verde sconfinato della foresta delle Landes e il blu immenso dell’oceano Atlantico, centoventi metri sotto di noi. I miei piedi nudi sprofondavano nel tepore della sabbia, impalpabile come borotalco, mentre percorrevamo il crinale, increduli e stupefatti da tanta bellezza. Da un lato quella enorme e infinita distesa blu, dalla superficie brillante arricciata da una miriade di crestine bianche, interrotta soltanto dalla piatta sagoma verdastra del Banc d’Arguin, proprio davanti a noi, ultima propaggine di terra semisommersa prima di arrivare alle coste americane, invisibili laggiù in fondo, ben oltre l’orizzonte. Dall’altro questa cattedrale di sabbia e di vento, solcata da milioni di impronte di mani, di piedi e di cuori, che si ergeva fiera a difesa del verde circostante, compatto e interminabile. Sopra, l’azzurro accecante del cielo estivo che mentre accompagnava il disco infuocato del sole nella sua lenta discesa, assumeva gradualmente tutte le sfumature del celeste, del blu, dell’indaco, fino al viola, al grigio, al nero. E lui, l’interprete principale, fiero del suo ruolo di prim’attore, si beava dei nostri sguardi rapiti e ammutoliti mentre si prodigava in un favoloso tramonto, assumendo tonalità sempre più accese. Ci accoccolammo sulla duna, mentre lungo tutto il crinale tantissime altre persone facevano altrettanto, e tenendo i piedi sepolti nella sabbia tiepida al riparo dal vento che stava diventando freddo, accompagnammo il sole con i nostri sguardi mentre si preparava lentamente ad una notte di riposo. Non avrei mai dimenticato lo sguardo meravigliato di mia figlia mentre assisteva con stupore al primo tramonto della sua vita, aspettandosi quasi di avvertire lo sfrigolio della palla infuocata quando avesse toccato l’acqua, mentre in silenzio ci tenevamo per mano. Non avrei mai dimenticato l’applauso, immediato e fragoroso, sgorgato simultaneamente e spontaneamente da centinaia di mani, testimoni dello stesso stupefacente momento, quando anche l’ultimo minuscolo pezzettino arancione fu inghiottito dal mare. Ci rialzammo un po’ intorpiditi, un po’ incapaci di accettare che una cosa così semplice potesse essere così bella, apprestandoci alla via del ritorno, mentre il vento si faceva pungente e i colori si smorzavano sempre più. La ripida discesa di sabbia incitava ai tuffi, alle capriole, all’obbligatoria corsa su una pendenza degna di una pista nera, che mia figlia e suo padre si fecero tutta d’un fiato ridendo come matti. Io, nel pieno rispetto delle mie preferenze sciistiche, scelsi il lato pista rossa, correndo giù allegra e scanzonata, trattenendo dentro di me quel susseguirsi di emozioni fantastiche che mi avevano accompagnata per tutta la serata. I ricordi sono così. Quando ti assalgono li devi far scorrere dietro ai tuoi occhi chiusi come un filmino in Super 8, traballante e un po’ sgranato, assaporando e rivivendo luoghi, persone, fatti, odori e colori. Oggi mi sono ricordata di una serata estiva, unica ed indimenticabile, quando rimboccammo le coperte al sole che andava a dormire dalla Dune du Pyla.

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